Riparliamo di panico – La storia di Paola

Oggi vorrei tornare ad affrontare l’argomento panico attraverso una storia vera, quella di Paola (ovviamente il nome è di fantasia).

Paola, 36 anni, arriva da me dopo aver intrapreso almeno tre percorsi di psicoterapia. Mi dice subito che si sente esausta perché niente pare sia servito a risolvere il suo problema: quello degli attacchi di panico. Arriva nel mio studio con la disperazione negli occhi perché sostiene di aver oramai perso il controllo della sua vita: non è più in grado di stare da sola in casa, effettua solo più uno spostamento in auto durante il giorno (quello che da casa la porta al lavoro) ma deve spesso fermarsi per telefonare al marito, sentire che dall’altra parte c’è una voce amica in grado di ascoltarla quando l’ansia è in agguato. Da anni non entra più in un centro commerciale per paura che il panico torni a trovarla e le impedisca di trovare facilmente l’uscita. Non esistono più treni o aerei ed anche la settimana di vacanza faticosamente organizzata con il marito è stata annullata per il timore che il viaggio in auto e la successiva lontananza da casa (considerata l’unico luogo sicuro) possano riservarle qualche brutta sorpresa.

Paola si chiede, tra le copiose lacrime, come sia potuta arrivare a questo punto, proprio lei che è sempre stata una donna dinamica e piena di mille interessi. Adesso la sua vita è controllata dalla paura e così al mattino, pur dovendosi recare in ufficio alle nove, esce di casa alle sei quando il marito va al lavoro ma, poiché per lei è ancora molto presto, fa una sosta dai suoi genitori e poi con la sua auto si dirige in azienda. Il tragitto è di solo 10 minuti ma è un vero incubo e a volte sembra interminabile. Paola decide di venire da me perché la settimana precedente non è riuscita ad arrivare al lavoro a causa di un attacco di panico e si è messa in mutua. Si dice terrorizzata perché non vuole mettere a repentaglio il suo lavoro.

Ma cerchiamo di rispondere alla domanda di Paola: in che modo il panico è riuscito ad invalidare la sua vita? Tutto pare essere iniziato un giorno di dieci anni fa. Era estate, Paola si trovava su un tram molto affollato, in piedi tra gente che la spintonava da ogni parte. Improvvisamente aveva sentito una fortissima sensazione di calore invaderle il petto, il collo e il viso e aveva iniziato a sudare. Tutto era accaduto velocemente: la sensazione di non essere lucida e che le mancasse il respiro, le vertigini, la vista appannata, il cuore che andava a mille. E così, in fretta e furia era scesa dal tram, aveva chiamato suo padre e si era fatta venire a prendere. Da quel giorno non aveva più preso il tram per paura che potesse ripresentarsi quella sgradevole sensazione. Si era così innescata la “paura della paura” attraverso alcuni pensieri ricorrenti: “E se dovesse succedere di nuovo?”, “E se capita quando sono da sola?”. Aveva così iniziato a monitorare costantemente le proprie reazioni: il respiro, il battito del cuore, il tremore degli arti, la propria lucidità mentale, estraniandosi spesso da quello che le accadeva intorno.
Ma come è possibile che da un singolo episodio si arrivi al punto in cui il panico prende il totale sopravvento? Il tentativo di controllare il panico aveva fatto sì che la mente di Paola creasse proprio i fantasmi di cui aveva paura, inoltre nel rinunciare progressivamente a fare delle cose, a vivere le esperienze quotidiane, aveva trovato la conferma che queste erano davvero troppo rischiose per tentare di affrontarle.

Dunque, evitare le situazioni temute non fa che confermarne la pericolosità mentre l’aiuto che amorevolmente viene offerto dagli altri se da un lato dà una sensazione di immediato sollievo, a lungo andare non fa che accrescere la sfiducia del soggetto nelle proprie risorse. Quindi la principale strategia di lotta al panico, ovvero l’evitamento, alimenta esponenzialmente la paura, non solo nei confronti di situazioni identiche a quella in cui si è verificato il primo episodio di panico ma, come in una reazione a catena, verso tutte quelle che vi somigliano, anche lontanamente.

Paola aveva quindi iniziato ad evitare i tram, poi i centri commerciali, successivamente tutti i mezzi di trasporto nei quali aveva la sensazione di sentirsi in trappola. Ma non era finita qui. Era riuscita a fare in modo che il marito o i suoi genitori fossero sempre pronti ad accompagnarla là dove non poteva esimersi dal recarsi, confermando implicitamente a sé stessa di non essere più in grado di restare da sola…nemmeno nella sua casa. Come un cancro la paura si era insinuata in ogni anfratto della sua vita…

Che lavoro si sta facendo con Paola? La si sta aiutando a prendere coscienza del fatto che la paura evitata si trasforma in panico mentre, se guardata in faccia, si trasforma in coraggio. Attraverso quanto già esposto nell’articolo “Pensare di non pensare è già pensare“, sta verificando che nei momenti di panico è del tutto inutile tentare di distrarre la mente. Allo stesso tempo sta rivalutando l’aiuto degli altri. Se prima il supporto continuo del marito e dei genitori era considerato salvifico, adesso Paola ne comprende meglio il messaggio subliminale: “Mi aiutano perché mi vogliono bene ma anche perché mi considerano malata e pensano che non posso farcela da sola”.
Con questi piccoli accorgimenti e con dei “compiti” da fare a casa, Paola sta riacquistando fiducia in sé stessa e nelle sue capacità e sta piano piano riprendendo il controllo della sua vita, dimostrando di poter affrontare ciò che fino a poco tempo prima sembrava spaventoso.

Fonte:

Nardone G., Paura, panico, fobie, Ponte alle Grazie, Firenze, 1993.
Nardone G., Non c’è notte che non veda il giorno, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.

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